venerdì 4 novembre 2011

la storia di Gnutella in fuga

(una breve favola sfottò scritta anni fa)

Dovete sapere che sul pianeta Terra si può trovare una particolare forma di esistenza che gli homo chiamano “gnutella“.
Tale gnutella nasce e compie il suo ciclo di vita in vasetti di vetro, gnutellando. Ovvero praticando attività gnutellose quali considerare quanto sia bello essere una gnutella, ammirare il retro dell’etichetta, aspettare fremente di esser coccolata dai peli dello stomaco degli homo, etc.
In genere si possono osservare le gnutelle negli scaffali dei negozi e nelle dispense delle tane degli homo. Nessuno sa come nascano, e neanche le gnutelle stesse, che assumono una gnutellosa coscienza solo dopo essere sigillate, ne hanno idea. Nemmeno si pongono il problema, in fondo.Fatto sta che un giorno, nel magazzino di un trascurabile supermercato di provincia della Terra, si creò un po’ di scompiglio tra le gnutelle.Una gnutella-avariata per motivi che per oggettiva decenza è preferibile omettere- si era stranamente stufata di gnutellare.Se qualche linguista che intende il gnutellese fosse passato di lì, avrebbe ascoltato più o meno questo:
-MA SEI PAZZA???!!!!!??
-Lasciatemi in pace!!!
-COSì TI FARAI MALE!
-non me frega una gnocciola!
-MA NON CAPISCI, SE ROMPERAI IL VASETTO TI FARAI DEL MALE, E…
-’ulo.
-…E FARAI DEL MALE! SE ROMPERE IL VASETTO FOSSE COSA BUONA E RAGIONEVOLE, QUALCHE GNUTELLA L’AVREBBE GIà FATTO E CI SAREBBERO MOLTE PIù GNUTELLE FUORI DAL VASETTO, IN GIRO! CIò CHE NON è STATO MAI è PER FORZA MALE!è OVVIO!
-Allora, aprite bene i tappi:ne ho pieni i grassi idrogenati di gnutellare e di queto vasetto,voglio sapere cosa c’è lì fuori. Datemi pure della pazza, ma sia dannata la fissazione anale se non esco di qui!!
…e così…….SPATACIAAAAAAAAACKKKKKKKKKKKKK!!!!!!!!
Gnutella uscì dal vasetto rompendolo e provando qualcosa che noi chiameremmo “dolore”, e cominciò il suo viaggio.
Fu un viaggio difficile: a ogni metro perdeva qualcosa di ciò che era prima e anche qualche molecola del suo corpo. A volte si lasciava sopraffare dalla depressione e voleva tornare nel vasetto a gnutellare una gnutellosa e tranquilla esistenza, ma era ormai troppo contaminata dai suoi viaggi per essere mangiata, e tutte le gnutelle le avevano voltato il vasetto.
Un giorno scoprì come nascono le gnutelle. Scoprì anche che fine fanno le gnutelle. E allora continuò a viaggiare e viaggiare, per compensare quell’orrore. Cercò ogni emozione, ogni sensazione, ogni nozione, rendendosi sempre più piccola mentre parti di lei diventavano una gnutella a sè.
Qualcuno dice che la gnutella fuori dal vasetto non esiste più.Qualcuno dice che è ovunque.
Quel che è certo è che visse rotta, calpestata, libera.
Ma soprattutto, non digerita.

sabato 22 ottobre 2011

due cravatte al bar

Oggi ho estratto da cartelle dimenticat questo racconto, scritto per un libricino informativo sul servizio civile. Rileggerlo mi ha mosso interessanti farfalline nello stomaco, dunque ve lo propongo.
Inutile dirvi che qualsiasi commento è più che ben accetto!


2 cravatte al bar
I panini vegetariani più buoni di Brescia si possono gustare in corsetto Sant’ Agata, in un baretto senza pretese.
Qualche stampa anonima alle pareti arancioni, fredde sedie di ferro, Virgin Radio in sottofondo e cicaleccio formale da pausa pranzo o aperitivo.
Il classico locale in cui, se non hai nulla da leggere, non puoi fare a meno di guardarti intorno, nella speranza che qualche particolare avvenimento riscuota dal torpore quell’insipido angolo di via.
Era un martedì e per la pausa pranzo avevo a disposizione ben due ore, ma il libro del mese era rimasto sul comodino. Ruminavo dunque pensieri e verdure dondolando lo sguardo nei trenta metri quadri, quando comparirono sulla soglia due silhouette in completo blu e cravatta sgargiante. A falcate ampie e noncuranti si diressero verso il bancone, mani in tasca e slang forse-avvocatesco.
Quello scambio di termini tecnici a mento alto e ginocchia dinoccolate andò affievolendosi col passare dei minuti: nessuno accorreva a servirli.
Mentre addentavo il panino i loro occhi si incrociavano fuggiaschi, i loro corpi si irrigidivano in movimenti brevi e nervosi. Mi sorpresi a sorridere mentre li immaginavo come due massaie ansiose di far notare il difetto nel vestito comprato il giorno prima.
Il loro “dramma” era che in quei cinque minuti non era successo assolutamente nulla.
Il barista li degnò finalmente della sua attenzione, e i due impiegarono altri cinque minuti abbondanti per ordinare due macedonie e una piadina rucola e bresaola da dividersi.
Notando sotto i loro vestiti un fisico non sovrappeso ma affatto atletico, non feci in tempo ad alzare il sopracciglio che loro girarono il collo, chiedendo:
-Dove possiamo sederci?
Il barista guardò me, i sei-sette tavolini vuoti, e andò in cucina sbottando un
-Dove volete.
Dopo un quarto d’ora le due cravatte sgargianti erano circondate da tavolini vuoti, e le ciotoline di macedonia durarono altrettanto.
Ero ora più che mai ipnotizzata: una di quelle macedonie, nelle mie mani, sarebbe durata non più di quattro cucchiaiate. E invece si trovavano in bilico tra la consumazione e l’apparenza, spruzzate di cacao, con una fragolina che veniva sballottata da un bordo all’altro. Un avanzo di piadina in mezzo.
Era tutto troppo, troppo simmetrico. Ed era tornato il torpore. Ogni piega del loro vestito mi sembrava la crepa di un terreno arido.
Intorno a loro si dispiegarono a mitragliata una serie di parole che mi avevano accompagnato fino ad allora, come assistente ad personam prima, come volontaria in servizio civile poi.
Fragilità. Disagio sociale. Accompagnamento. Assistenza. Stereotipie. Paranoie. Sindrome ansiosa. Bisogno di certezze.
Il confine delle parole svanì con quelle.