sabato 22 ottobre 2011

due cravatte al bar

Oggi ho estratto da cartelle dimenticat questo racconto, scritto per un libricino informativo sul servizio civile. Rileggerlo mi ha mosso interessanti farfalline nello stomaco, dunque ve lo propongo.
Inutile dirvi che qualsiasi commento è più che ben accetto!


2 cravatte al bar
I panini vegetariani più buoni di Brescia si possono gustare in corsetto Sant’ Agata, in un baretto senza pretese.
Qualche stampa anonima alle pareti arancioni, fredde sedie di ferro, Virgin Radio in sottofondo e cicaleccio formale da pausa pranzo o aperitivo.
Il classico locale in cui, se non hai nulla da leggere, non puoi fare a meno di guardarti intorno, nella speranza che qualche particolare avvenimento riscuota dal torpore quell’insipido angolo di via.
Era un martedì e per la pausa pranzo avevo a disposizione ben due ore, ma il libro del mese era rimasto sul comodino. Ruminavo dunque pensieri e verdure dondolando lo sguardo nei trenta metri quadri, quando comparirono sulla soglia due silhouette in completo blu e cravatta sgargiante. A falcate ampie e noncuranti si diressero verso il bancone, mani in tasca e slang forse-avvocatesco.
Quello scambio di termini tecnici a mento alto e ginocchia dinoccolate andò affievolendosi col passare dei minuti: nessuno accorreva a servirli.
Mentre addentavo il panino i loro occhi si incrociavano fuggiaschi, i loro corpi si irrigidivano in movimenti brevi e nervosi. Mi sorpresi a sorridere mentre li immaginavo come due massaie ansiose di far notare il difetto nel vestito comprato il giorno prima.
Il loro “dramma” era che in quei cinque minuti non era successo assolutamente nulla.
Il barista li degnò finalmente della sua attenzione, e i due impiegarono altri cinque minuti abbondanti per ordinare due macedonie e una piadina rucola e bresaola da dividersi.
Notando sotto i loro vestiti un fisico non sovrappeso ma affatto atletico, non feci in tempo ad alzare il sopracciglio che loro girarono il collo, chiedendo:
-Dove possiamo sederci?
Il barista guardò me, i sei-sette tavolini vuoti, e andò in cucina sbottando un
-Dove volete.
Dopo un quarto d’ora le due cravatte sgargianti erano circondate da tavolini vuoti, e le ciotoline di macedonia durarono altrettanto.
Ero ora più che mai ipnotizzata: una di quelle macedonie, nelle mie mani, sarebbe durata non più di quattro cucchiaiate. E invece si trovavano in bilico tra la consumazione e l’apparenza, spruzzate di cacao, con una fragolina che veniva sballottata da un bordo all’altro. Un avanzo di piadina in mezzo.
Era tutto troppo, troppo simmetrico. Ed era tornato il torpore. Ogni piega del loro vestito mi sembrava la crepa di un terreno arido.
Intorno a loro si dispiegarono a mitragliata una serie di parole che mi avevano accompagnato fino ad allora, come assistente ad personam prima, come volontaria in servizio civile poi.
Fragilità. Disagio sociale. Accompagnamento. Assistenza. Stereotipie. Paranoie. Sindrome ansiosa. Bisogno di certezze.
Il confine delle parole svanì con quelle.

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